Language and Text
2020. Vol. 7, no. 1, 6–30
doi:10.17759/langt.2020070101
ISSN: 2312-2757 (online)
Dostoevskij: La Russia e l’Europa. Alcune riflessioni sulle opere letterarie
Abstract
Сerco di capire le modalità di espressione delle concezioni di Dostoevskij che, per il tramite della «vivente fantasia», traducono i rapporti reali in sistemi di segni artistici, con le inevitabili strutture problematiche interne e le significative contraddizioni. Per gli slavofili, la polarità Russia-Europa si concretizza in due modelli di vita diversi. Dostoevskij, al contrario, riprende le tensioni presenti nel rapporto tra Russia ed Europa, per esempio quello tra popolo e intelligencija, «verità di Cristo» e arbitrio individualistico, e le analizza con un impianto concettuale nuovo e originale. L’elemento «positivo» della concezione dostoevskojana è rappresentato dall’esperienza sociale e dalla capacità di avvertire, proprio per questo suo radicamento, «la frattura con il passato» e la crisi dell’epoca in cui vive. Nell’ambito di tale crisi vanno collocate le drammatiche vicende dell’«uomo del sottosuolo», dei Roskol’nikov e della famiglia Karamzov. Per tali ragioni, si può sostenere che Dostoevskij, tramite il confronto tra Europa e Russia e con la sua visione genialmente penetrante, riesce a individuare i conflitti fondamentali e le tensioni esistenziali dell’uomo contemporaneo, che hanno le radici nel passato e si proiettano nell’essenza problematica del futuro. Da qui deriva anche la diffusione della popolarità della sua opera, e tutto ciò a prescindere dagli aspetti riconducibili all’utopia sociale.
General Information
Keywords: Dostoevsky, opere di Dostoevsky, Europa, Russia, il destino della Russia
Journal rubric: World Literature. Textology
Article type: scientific article
DOI: https://doi.org/10.17759/langt.2020070101
For citation: Astuto G. Dostoevskij: La Russia e l’Europa. Alcune riflessioni sulle opere letterarie [Elektronnyi resurs]. Âzyk i tekst = Language and Text, 2020. Vol. 7, no. 1, pp. 6–30. DOI: 10.17759/langt.2020070101.
Full text
Introduzione
Il rapporto tra la Russia e l’Europa è un tema centrale nella riflessione dell’Ottocento. Con una sorprendente ricchezza culturale, gli intellettuali russi, sia sul versante politico che su quello letterario, si sono interrogati sulla natura del loro Paese, individuandone un percorso simile a quello dell’Europa o evidenziandone una identità “altra”, a volte “totalmente altra”, fondata su realtà spirituali e culturali sostanzialmente diverse.
Anche la storiografia ha scrutato la Russia, un paese immenso e atipico, portatore di una cultura affascinante, ma sempre legato ad una logica particolare, difficile da comprendere. Si ritiene, secondo le interpretazioni dominanti, che questo Paese da secoli abbia cercato la via di una completa europeizzazione, ma alla fine abbia seguito un percorso del tutto peculiare, molto spesso tragico ma mai insignificante. Il suo rapporto con l’Europa è stato costantemente duplice e ambivalente, di attrazione e di ripulsa, di omogeneità e di alterità. Da qui deriva la tesi che la Russia è al tempo stesso Europa e Anti-Europa, Paese cristiano e “scismatico”, romantico e illuminista, progressista e conservatore.
Su questi temi ho studiato negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, durante un periodo trascorso a Mosca come borsista del ministero degli Esteri italiano. Li riprendo dopo qualche decennio, sollecitato dai colleghi russi, che mi hanno coinvolto prima nel progetto di ricerca su Dostoevskij e poi invitato a questo convegno. Nelle pagine seguenti, analizzo, tramite la lettura di alcune opere, le idee del romanziere sul rapporto Russia-Europa. L’obiettivo non è quello della ricostruzione integrale della visione del mondo dostevskijana e, tanto meno, della cosiddetta «substruttura filosofica» presente nel complesso del percorso letterario.
Lo storico, che assume le «visioni del mondo» come principio della «storia delle idee», deve cogliere lo specifico moto ideale nelle sue interne connessioni e individuarne l’inevitabile rapporto dialettico tra forma, contenuto e sostanza sociale. Con tale approccio, cerco di capire le modalità di espressione delle concezioni di Dostoevskij che, per il tramite della «vivente fantasia», traducono i rapporti reali in sistemi di segni artistici, con le inevitabili strutture problematiche interne e le significative contraddizioni.
Per gli slavofili, la polarità Russia-Europa si concretizza in due modelli di vita diversi. Dostoevskij, al contrario, riprende le tensioni presenti nel rapporto tra Russia ed Europa, per esempio quello tra popolo e intelligencija, «verità di Cristo» e arbitrio individualistico, e le analizza con un impianto concettuale nuovo e originale. L’elemento «positivo» della concezione dostoevskojana è rappresentato dall’esperienza sociale e dalla capacità di avvertire, proprio per questo suo radicamento, «la frattura con il passato» e la crisi dell’epoca in cui vive.
Rispetto agli slavofili, Dostoevskij non si racchiude solo nell’utopia ortodossa-popolare, ma cerca di capire la costellazione dei nuovi problemi e solleva un nuovo modo di vedere il mondo e porgli interrogativi. Con la sua eccezionale sensibilità, lo scrittore coglie la crisi di tutti i valori tradizionali e la mancanza di nuove «idee unificatrici». «Il vincolo di un’idea che unisca gli uomini – dichiara uno dei protagonisti del romanzo L’adolescente [Podrostok] del 1875 – è scomparso completamente». Un altro personaggio della stessa opera, Andrej Versilov, osserva che, con la caduta del feudalesimo, il precedente legame di idee si è disgregato e ha prodotto l’affermazione dell’egoismo: «sono rimaste – afferma – solo le libere individualità».
Nell’ambito di tale crisi vanno collocate le drammatiche vicende dell’«uomo del sottosuolo», dei Roskol’nikov e della famiglia Karamzov. Per tali ragioni, si può sostenere che Dostoevskij, tramite il confronto tra Europa e Russia e con la sua visione genialmente penetrante, riesce a individuare i conflitti fondamentali e le tensioni esistenziali dell’uomo contemporaneo, che hanno le radici nel passato e si proiettano nell’essenza problematica del futuro. Da qui deriva anche la diffusione della popolarità della sua opera, e tutto ciò a prescindere dagli aspetti riconducibili all’utopia sociale.
Naturalmente, le riflessioni contenute in questo contributo sono provvisorie e richiedono ancora approfondimenti e verifiche. Le mie sono delle ipotesi, forse premature, che non hanno la pretesa di fornire delle risposte definitive. Allo storico importa, però, enunciare i problemi piuttosto che cercare di risolverli. Se alla fine, le ipotesi formulate risulteranno errate, come ha affermato Marc Bloc, potrò dire anch’io che «mi stimerò pienamente ripagato dalle mie fatiche».
1. «Umiliati e offesi» e «Una storia sconveniente». Il tempo delle speranze e la crisi delle riforme
Agli inizi degli anni Sessanta dell’Ottocento, la Russia si avvia verso il cambiamento, che culmina il 18 febbraio 1861 nell’agognanta liberazione dei contadini dal servaggio, voluta dal giovane zar Alessandro II. Si apre il tempo delle speranze, dell’allentamento della censura e della timida apparizione di nuovi strati sociali, orientati a far sentire la loro voce e a sollevare i problemi dell’ammodernamento del Paese. I sommovimenti si manifestano con la rovina economica delle tenute nobiliari in seguito all’abilizione della legge sul servaggio, con le modifiche del sistema giudiziario e con la legislazione sull’amministrazione locale, che prevede l’istituzione degli zemstva [Assemblee locali] e la partecipazione ai nuovi organismi di tutti i ceti. Si percepiscono anche la confusione e l’ambiguità del fervore riformatore, nato da una grande catastrofe nazionale (la disfatta di Crimea) e da un vuoto di potere interno (la rovina economica della nobiltà, ma anche dei contadini incapaci di fronteggiare le spese per il riscatto).
Tornato dall’esilio e sbarcato a San Pietroburgo nel dicembre 1859, Dostoevskij condivide la speranza nel rinnovamento sociale e partecipa al dibattito contemporaneo. Con il fratello Michail, fonda la rivista «Vremja» [Il Tempo], edita a partire dal gennaio 1861, che diventa l’organo di un gruppo di intellettuali, i cosiddetti počvenniki (sostenitori del «ritorno al suolo»), favorevoli alle riforme, ma lontani dalle posizioni radicali. Il programma, apparso ai contemporanei eclettico e generico, si incentra sull’unione fra intelligencija e popolo, occidentalismo e slavofilismo, Europa e Russia. Si cerca, insomma, una sintesi fra dinamismo conservatore e preservazione di istituti sociali antichi con potenzialità ancora inespresse.
La rivista «Vremja» inizia la sua attività, dedicando attenzione alle istituzioni e ai fenomeni tipici della storia russa, come il Raskol’, lo Scisma del secolo XVII, ancora fortemente avversato dagli ambienti governativi. Dostoevskij lo considera una ricchezza e la prova della capacità del popolo russo di creare una cultura originale e indipendente. «Il ritorno al suolo natio», altro tema della rivista, prevede l’avvicinamento del popolo e del ceto medio nell’ambito del nuovo quadro politico caratterizzato dalla partecipazione alla vita civile di milioni di contadini liberati dal servaggio. Questo processo assume tratti originali in Russia per l’assenza di conflitti tra i ceti, come era avvenuto in Occidente, e per la manifestazione di forme solidaristiche volte al rafforzamento della coesione sociale.
Ben presto, però, la liberazione dei contadini, senza terra e con il peso del pesante riscatto, provoca forti delusioni. Tra le fila dei počvenniki si percepisce che la riforma non contribuisce alla realizzazione dell’ideale di soglasie [armonia] e alle nuove forme di convivenza e cultura fondata sulla narodnost’ [lo spirito popolare]. Già nell’estate del 1861, «Vremja» comincia a battersi per l’adozione di provvedimenti più concreti, quali l’alfabetizzazione, l’eliminazione delle barriere di ceto e l’educazione morale del popolo. Sul fronte letterario, Dostoevskij dimostra un particolare attivismo. Difende Aleksandr Puškin e le sue Notti egiziane e promuove traduzioni, come nel caso dei Racconti di Egdar Poe o Notre Dame de Paris di Victor Hugo. Questa pubblicazione si presenta opportuna a seguito del recente successo de Les Misérables. I fratelli Dostoevskij, con la loro febbrile attività, aumentano così in modo considerevole il numero degli abbonati alla rivista. Nel 1861 «Vremja» pubblica il romanzo Umiliati e offesi [Unižennye i oskorblënnye], accolto molto freddamente dalla critica, nel quale Dostoevskij descrive, con un aspro realismo, gli aspetti peggiori dell’animo umano, proiettandoci nella miseria e nella corruzione. Fra le pagine emerge anche una buona dose di autobiografismo nella figura del personaggio narratore, Vanja, scrittore che insegue un racconto da consegnare entro le scadenze editoriali. Si può sostenere che l’opera si muove su diversi registri, strettamente legati ai problemi degli anni Sessanta.
Il primo riguarda la severa critica nei confronti della nobiltà russa, avida e in crisi. Il principe Valkonsky assomma i caratteri di questa classe sociale che costituisce un anello fondamentale nell’organizzazione sociale dell’autocrazia zarista. Apparentemente, favorisce il matrimonio del figlio Alëša con la povera Nataša, nei fatti ha mire economiche più ambiziose e vuole sposarlo con la ricca e nobile Katia. Tutti devono pagare il prezzo dell’arroganza del nobile Valkonsky: Nataša, ferita nei sentimenti; Alëša, forzato a un matrimonio d’interesse. A questo punto, entra in scena Elena, che si trova con il vecchio visto morire sulla strada da Vanja (Dostoevskij) all’inizio del romanzo. La sua storia è tragica. La madre, appartenente a una famiglia facoltosa, ha sposato un mascalzone, che si impossessa di tutte le ricchezze e la abbandona sola con Elena. I genitori, precipitati nella miseria più nera, maledicono la figlia che, in cerca di aiuto, è tornata in patria. Il padre la misconosce e si rifiuta di incontrarla. Alla morte della madre, affetta da malattia tubercolare, Elena è presa in carico da una maitresse, che la vuole sfruttare come giovane prostituta. Con l’aiuto di un vecchio compagno di scuola, Vanja riesce a sottrarre la bambina e a tenerla a casa, nell’attesa di trovarle una sistemazione più adeguata e di fare luce sul suo passato. Entrata nell’ambiente familiare di Nataša, Elena, che si sta innamorando di Vanja, diventa gelosa. La situazione ha fine quando le due donne diventano amiche. Il racconto si svolge tra donne oltreggiate e cadute nella vergogna e tra orgogli irriducibili che si macerano nella disperazione. Traspare la sofferenza, fisica e morale, che però lascia un messaggio finale positivo. La storia di Nataša, di Elena e di sua madre ci proiettano in un mondo di donne umiliate dalle costrizioni maschili. La madre di Elena non ha ricevuto il perdono del padre, il quale muore consumato dal dolore. Elena trova in Vanja un punto di riferimento per costruirsi una vita normale. Nataša decide di vivere liberamente la propria relazione d’amore. In tal modo, Dostoevskij dimostra che, se l’uomo antepone i sentimenti alla buona nomea e all’orgoglio, riesce a non essere distrutto dalle umiliazioni e dalle offese della vita. Sono, questi, temi che toccano la questione femminile in voga negli anni Cinquanta e Sessanta dell’Ottocento, sui quali lo scrittore è intervenuto con un articolo polemico proprio su «Vremja».
L’ultimo elemento da considerare riguarda l’autobiografia romanzata. Si tratta di un genere letterario tipico della prosa russa degli anni Cinquanta, che si è concretizzata nella trilogia Infanzia, Adolescenza e Giovinezza, e nei Racconti di Sebastopoli di Lev Tolstoj e nella Cronaca di Sergej Aksakov. Dostoevkij, andando oltre il racconto dell’esperienza personale, pone l’accento su tematiche oggettive, quali la diseguaglianza sociale, e da queste si muove per l’analisi delle questioni maledette che angustiano il cuore degli uomini. La letterarietà, semmai, contribuisce a rafforzare le condizioni sociali indagate e denunciate. Non a caso si ritiene che le opere dostoevskiane si muovano entro la polarità di letteratura e società. Collocato entro questa polarità, il romanzo è accolto con favore dagli influenti critici progressisti.
In quel periodo di grandi speranze, suscitate dalle riforme annunciate, non si delineano le polarità che si acuiranno nel decennio successivo. Dostoevskij è ancora legato agli ideali della sua gioventù, ma comincia a metterli in discussione. A metà del 1862, il quadro politico registra un arretramento a seguito degli attentati dinamitardi a Pietroburgo e di alcune rivolte contadine. Il governo zarista reagisce con l’adozione di forme restrittive sulla libertà di stampa, con la chiusura della rivista «Sovremennik» [Il Contemporaneo] e poi di «Vremja», che pur da posizioni moderate continua a difendere la libertà di stampa e la trasparenza. Dostoevskij comincia diffidare sull’impianto riformatore e, soprattutto, sulla sua gestione affidata al ceto dei burocrati. Il romanzo Una storia sconveniente [Skvernyj anekdot], pubblicato nel novembre 1862, va collocato in questo contesto. La storia inizia con un amabile consesso di tre alti funzionari che disquisiscono sulle riforme imminenti. Il generale Ivan Il’ič Pralinskij si ritiene un uomo progressista e auspica un rapporto umano con i sottoposti. Le sue teorie non sono viste di buon occhio dagli altri due, così Ivan Ilič lascia l’abitazione. Durante il ritorno, per l’allontanamento momentaneo del cocchiere, decide di partecipare ai festeggiamenti del matrimonio di un suo impiegato, a conferma delle sue formulazioni teoriche. Questa scelta, imprevista e inopportuna, aggravata dall’ubriacatura (ha bevuto della vodka durante il precedente incontro), lo mette in una sitazione sconveniente (skvernyj). La sbornia e il disarticolato discorso espongono Pralinskij al ludibrio dei convitati, che smascherano le sue vere intenzioni sulla realizzazione delle riforme. Da qui derivano inconvenienti e incomprensioni. L’astemio generale, già brillo, accetta senza indugio bicchieri di champagne e vodka e, addormentatosi improvvisamente a causa dell’alcool, è addirittura messo a letto, quello nuziale. Tramite il ricorso alla satira, Dostoevskij non intravvede uno sfondo ideale capace di tenere uniti i ceti, in contrapposizione alle sue concezioni progressiste degli anni Quaranta. Non nutre più la speranza di rinnovamento che ha preceduto e seguito le riforme. Qualche mese prima della pubblicazione del romanzo, nel suo secondo numero, «Vremja» pubblica un articolo dal titolo Due campi di teorici [Dva polja teoretikov] Dostoevskij polemizza sia con «Il Sovremennik», la rivista dei democratici radicali, sia contro «Den [Il Giorno]», organo degli slavofili. Entrambi sono accusati di avere teorie astratte nei confronti del popolo: «Se il popolo non ci capisce quando gli capitiamo davanti in guanti scamosciati dandogli del “Voi”, naturalmente è tutta colpa nostra […]. Certo, questo fenomeno viene dal fatto che siamo separati dal popolo, che la storia ha scavato un abisso tra noi ed esso».
2. «Note invernali su impressioni estive». L’Europa fuori la Russia
Il rapporto con il popolo, come quello con l’Europa, è uno dei temi portanti nelle opere di Dostoevskij. Esasperato dalla chiusura della rivista, il romanziere decide di recarsi a Parigi per incontrare una giovane femminista che lo ammira, Apollinarija Suslova. Successivamente va con lei a Baden-Baden, dove alla roulette perde 3.000 franchi e, poi, a Ginevra gioca il restante denaro. Per la visita in Italia, deve impegnare l’orologio. Durante il ritorno è previsto un soggiorno a Berlino, dove Dostoevskij continua a giocare per il recupero delle perdite. La Suslova allora lo lascia e torna a Parigi, da dove gli spedisce una somma che gli consentirà di prendere un treno per Pietroburgo. Rientrato in patria, Dostoevskij scrive e poi pubblica, Note invernali su impressioni estive [Zimnie zametki o letnich vpečatatlenjach], apparso nel 1863 nella rivista «Vremja».
In due mesi e mezzo nell’estate precedente, quasi a «volo di uccello», il romanziere ha visitato un impressionante numero di città tra Germania, Austria, Svizzera, Italia, Francia e Inghilterra. In realtà, l’impianto riprende la letteratura di viaggio, che Dostoevskij conosce molto bene (da Denis Fonvizin a Nikolaj Karamzin e ad Aleksandr Herzen). Al centro dell’attenzione del narratore sta la riflessione sul confine che sta attraversando e sulla patria che sta per lasciare. Dostoevskij sembra partire non dalla realtà immediata, bensì dalla rielaborazione letteraria.
Le note, a cavallo tra il là e il qui, tra l’estate e l’inverno, tra l’esperienza e la sua concettualizzazione, mettono in secondo piano ogni interesse turistico. Dostoevskij si vanta di non avere visitato a Londra St. Paul, perché lo interessa Pentonville, la prigione di Sua Maestà, un carcere moderno, fondato sulla separazione dei detenuti in celle singole. Emerge soprattutto la questione della Russia e del suo futuro: «ma ormai – scrive Dostoevskij – voi starete già pensando che al posto di Parigi mi sono dedicato alla letteratura russa?».
Proprio questa gli serve per trattare il tema della sua grande utopia, quella di una fratellanza che, legando tutti gli strati della società, ha permesso a Puškin di capire il lato più oscuro dello spirito popolare e di penetrare nell’anima di Pugačëv, «grazie a quel qualcosa forse di chimico che lega un uomo alla sua terra». La fratellanza dello scrittore non si fonda su un patto sociale e legale, non sulla condivisione razionale di un’idea. Essa è lontana dagli ideali della Rivoluzione francese e dalla conseguente società moderna europea, alla quale egli dedica pagine di critica severa.
Dostoevskij, con la descrizione del proletariato urbano dei quartieri di Londra e con il suo mondo oscuro e sotterraneo, fornisce un quadro fosco. Lo descrive come il «tenebroso scantinato» della degradazione sociale, la cui rappresentazione fornirà le immagini simboliche per il «sottosuolo» dell’anima e del cosmo. Anche Parigi è investita dalla critica sarcastica sulla pervasività dell’ex glorioso Tiers état, divenuto il meschino bourgeois che nutre soltanto un’autocompiaciuta idolatria per il dio denaro. Tramite la denuncia dell’ipocrisia, Dostoevskij evidenzia i limiti e le contraddizioni dei grandi ideali moderni. Quale libertà, si chiede Dostoevskij, è possibile senza denaro, senza cioè la garanzia di una vita dignitosa? Quale chimerica uguaglianza si trova nei tribunali, oltre ai proclami delle leggi? Quale liberazione femminile è possibile, se il matrimonio si fonda su un mercimonio e non è diverso dalla prostituzione, più o meno d’alto bordo. Quale religione, se le Chiese hanno ormai gettato la maschera, diventando scopertamente «religione per i ricchi»?.
La fratellanza di Dostoevskij non ha niente in comune con gli ideali illuministici, ormai fatti propri dall’Europa. Essa ha qualcosa di istintivo e di prerazionale, basata sul superamento del culto della persona isolata, autosufficiente, dell’Io, che si autodetermina e si percepisce «come distinto principio autonomo, perfettamente pari ed equivalente a tutto ciò che c’è al di là di se stesso». Lo scrittore, quindi, concepisce un altro tipo di persona che, tramite il proprio sacrificio volontario e perfettamente consapevole, si apre alla comunità e agli interessi della società intera. Questa apertura, fragile e minacciata dalle tentazioni dell’utile, appartiene al popolo russo «per natura», nonostante le sue traversie e la sua rozzezza.
Dostoevskij, come gli slavofili, oppone all’arbitrio e alla protesta individuale, tipici della civiltà occidentale, l’ideale di un’autentica e fraterna comunità, conservata si nell’ortodossia e nelle tradizioni del popolo russo. Nell’ambito di questa società, l’individuo non si pone contro la collettività, ma vi si consacra totalmente, senza esigere salvaguardie e senza lasciarsi guidare da alcun calcolo. A sua volta, la collettività non accetta uno spirito di sacrificio troppo spinto, assicurando all’individuo una libertà e una sicurezza, garantite ambedue dall’amore fraterno. Una tale comunità, sostiene Dostoevskij, non è possibile immaginarla, crearla:
«Occorre – scrive – che istintivamente si aspiri alla fratellanza, alla comunità [obščina], all’accordo [soglasie], e ci si aspiri a dispetto di tutte di tutte le secolari sofferenze di una nazione, a dispetto della barbara rozzezza e dell’ignoranza che si sono radicate nella nazione, a dispetto del secolare asservimento alle invasioni straniere. Occorre, in una parola, che l’esistenza di una comunità fraterna sgorghi dalla natura stessa dell’uomo, che sia un’esigenza innata o creata dai secoli».
Si può ritenere che Dostoevskij sia arrivato a queste conclusioni indipendentemente dagli slavofili, ma non si può non cogliere lo stretto legame esistente con l’ecumenismo [sobornost’] e con gli ideali di Aleksej Chomjakov. Non stupisce che essi appaiono, proprio mentre la rivista «Vremja» pubblica le parti finali degli Memorie dalla Casa dei morti [Zapiski iz mërtvogo doma], una testimonianza diretta della vita di una colonia penale, nella quale sono descritti le condizioni dei detenuti e i loro delitti, ma si può anche cogliere la condanna nei confronti degli intellettuali per la loro separazione dal popolo ostile.
Durante i primi anni Sessanta, la Russia vive un periodo contraddittorio per ragioni sociali, ma anche Dostoevskij non ha ancora definito le sue convizioni. Lo scrittore si trova in bilico tra la simpatia nei confronti dei socialisti, con i quali ha condiviso ideali, e la sfiducia nel progresso e nella possibilità di un rinnovamento sociale. Le sue oscillazioni si manifestano già durante il viaggio in Europa e, soprattutto, durante l’incontro con Herzen a Londra. Dostoevskij cerca di convincerlo all’abbandono della rivoluzione, insistendo sul superamento delle divisioni classiste e sull’armonia tra i ceti, presente all’interno del popolo russo. Herzen considera, perciò, lo scrittore un innamorato del popolo, un ingenuo, anche se tanto «caro».
Cominciano così a crollare gli orizzonti entro cui si è formata l’idea della realizzazione di un nuovo ordine non solo in Occidente ma anche in Russia. A questo punto, il risveglio dell’Oriente assopito deve proporre qualcosa di nuovo rispetto ai «passati lustri» della ragione e dell’esercizio del diritto per assicurare la convivenza civile. In questo contesto va collocata la svolta di Dostoevskij, che si concretizza in un ideale comunitario, individuabile nel vissuto popolare e nella mutua integrazione tra individuale e sociale.
3. «Memorie del sottosuolo». La confessione dell’anima
Più o meno alla stessa epoca delle Note invernali su impressioni estive, Dostoevskij pubblica Zapiski iz podpol’ja [Memorie del sottosuolo] (1864), un’opera che sembra cadere nel vuoto. In quest’opera egli rappresenta un individuo completamente asociale, privo di qualsiasi legame con la collettività e in rabbiosa protesta contro ogni forma di subordinazione. Il protagonista appare come «un uomo del XIX secolo svincolato dai principi correnti», che contrappone il proprio «io» al mondo obiettivo, si rifiuta di essere «un tasto di pianoforte» pronto a suonare le leggi di natura, intende la libertà come arbitrio e vede «non la vita, ma il principio della morte».
Su questa base, si può ritenere che le Memorie non pongano più alcun problema nuovo. Il loro eroe si limita ad essere l’illustrazione vivente delle funeste conseguenze dell’individualismo. Il dato più rilevante consiste nelle critiche, che esprimono il pensiero dell’autore, sulla futura società razionalizzata: «Signori, non sarebbe una buona cosa distruggere con un colpo solo tutta questa razionalità, darci un calcio, ridurla in polvere, perché vadano al diavolo tutti quei logaritmi e noi si possa di nuovo vivere con la nostra stupida volontà».
Dostoevskij quindi si esprime non con l’individualismo del suo eroe, come ha sostenuto qualche studioso, ma con la critica al razionalismo presente nella vita sociale che si manifesta come un denominatore comune sia al capitalismo che al socialismo. Secondo lo scrittore, l’uomo non è una creatura razionale e vive una società razionalizzata come qualcosa di esterno e di estraneo. Nelle condizioni di una tale società, priva di un legame autentico, metarazionale, la protesta irrazionale dell’«uomo del sottosuolo» è qualcosa di giustificato e legittimo.
Malgrado le somiglianze e le convergenze con gli slavofili, l’utopia “antioccidentale” di Dostoevskij si differenzia notevolmente. Gli slavofili, intrisi di spirito nobiliare e conservatore, non sarebbero stati capaci di guardare ab interno alla problematica dell’«uomo del sottosuolo». Dostoevskij può farlo in quanto individuo declassato, figlio di una «famiglia declassata» (raznočinec), proveniente dall’inquieto ambiente urbano, tra umiliazioni e ambizioni insoddisfatte. Non a caso lo sfondo di quasi tutte le sue opere è Pietroburgo, che si presenta come la città delle nebbie e delle notti bianche. Pervasa di una vita febbrile e affannosa, essa diventa spesso simbolo di quelle forze che hanno fatto irruzione dall’Occidente e che hanno distrutto la quiete dell’antica «santa Rus’».
L’utopia di Dostoevskij si racchiude in sostanza nella protesta romantica contro la civiltà capitalistica. A differenza dell’anticapitalismo degli slavofili, che hanno coniugato posizioni conservatrici e populiste, il pensiero dostoevskiano concentra l’attenzione sulle contraddizioni, sulle nuove condizioni di vita, sugli individui rosi dall’ambizione che possono trovare alimento solo nella dissoluzione della gerarchia sociale costituita. Sotto questo aspetto, molte delle considerazioni di Dostoevskij sono ispirate non tanto dagli slavofili, ma dalle idee di Herzen. Alcune convergenze tra conservatori e socialisti nella critica al capitalismo sono in effetti una delle costanti dell’evoluzione del pensiero sociale del secolo XIX.
Le Memorie del sottosuolo occupano un posto centrale all’interno della produzione dello scrittore. Cronologicamente, precedono i grandi romanzi e concludono la fase delle opere preparatorie e introduttive. Ideologicamente. rappresentano la prima incursione nel campo della filosofia e l’elaborazione, chiara e consapevole, del tema dell’«uomo del sottosuolo», ripreso e presente in tutte le opere successive. A differenza delle Note invernali, nelle quali lo scrittore ha prospettato l’amore cristiano e la fratellanza universale come possibile fondamento per le relazioni sociali, qui prevalgono il rifiuto della razionalità, l’egoismo assoluto e la lenta entropia del «sottosuolo» che si protrarrà per il resto della vita del protagonista.
Dostoevskij, per il momento, non affronta la prospettiva della palingenesi mistica, una via di uscita dal vicolo cieco della modernità. La risposta necessita di una prospettiva soteriologica che possa sottrarre l’uomo al sottosuolo. La riflessione dello scrittore entra in una fase nuova, che troverà una prima risposta nel romanzo Delitto e castigo.
4. «Il coccodrillo»». L’Europa dentro la Russia
Proprio in quel periodo Dostoevskij vive un momento terribile. Il 15 aprile muore la moglie, il 10 luglio il fratello Michail, poche settimane dopo l’amico e prezioso collaboratore Anton Grigor’ev. Il grave dissesto finanziario ereditato in seguito alla morte del fratello determinerà la chiusura della rivista. L’ultimo numero del 22 marzo 1865 il racconto satirico Krokodril. Neobynovennoe sobytie [Il coccodrillo. Un avvenimento straordinario]. Non si tratta ancora di nuove visioni del mondo, di una ben definita poetica e di concrete pratiche narrative. Il racconto affronta il tema della polemica politico-letteraria, facendo riferimento al capitale straniero che divora il protagonista.
Nel romanzo si racconta lo strano caso di Ivan Matveič, che a passeggio con la moglie Elena osserva uno splendido esemplare di coccodrillo, portato dal capitale straniero in Russia. L’amico che li accompagna, Timofej Semënovič, assiste all’ingestione di Ivan Matveič. Il panico si diffonde a partire dalla moglie che, a intermittenza, evoca l’unica soluzione percorribile «Squartatelo! Squartatelo!». D’altra parte, il proprietario dell’animale e qualche avventore, dando ormai per spacciato il povero Ivan, difendono la vita del coccodrillo: «il nostro compianto Ivan Matveič sarà già morto».
Con la sua caustica rappresentazione farsesca, Dostoevskij denuncia il carattere speculativo del neocapitalismo russo e l’origine straniera dei capitali investiti. Il povero činovnik [impiegato dello Stato] Matveič pensa ai risultati benefici «di attirare in patria capitali stranieri». Ad analoghe considerazioni perviene l’amico Timofej Semënovič, che non intende tirarlo fuori dal ventre dell’animale, perché, essendo il Paese impegnato ad attrarre capitali stranieri, «il capitale del coccodrillo si è appena raddoppiato grazie a Ivan Matveič, e noi, invece di proteggere il proprietario straniero, ci mettiamo a sbudellare il capitale base».
A un tratto la voce di Ivan irrompe nella galleria. Non solo il rispettabile signore è vivo, ma non ha alcuna intenzione di uscire dal coccodrillo. Su Ivan, che ha raggiunto la fama, si puntano i riflettori. Egli comincia a parlare sul bene dell’umanità, sull’utilità delle scienze naturali e sull’inutilità dell’arte e della letteratura. Propone nuovi sistemi sociali («una nuova teoria tutta mia sui rapporti economici») fino a sentirsi «un nuovo Fourier». Abbagliato dalla possibilità di una celebrità, stranamente ottenuta, Ivan dichiara senza indugio: «Ora che un coccodrillo mi ha inghiottito, sarò finalmente conosciuto! Forse il proprietario acconsentirà qualche volta a trasportare me e il coccodrillo nel salotto di casa mia dove sarò al centro dell’attenzione». «Dal coccodrillo usciranno ora verità e luce».
Niente corrisponde alla realtà. L’Europa si manifesta con le sembianze di un coccodrillo, i capitali stranieri, che dovrebbero favorire la capacità produttiva della Russia contro «il veleno» dell’obščina [comunità] e del comunitarismo. Tutto si riduce alla meschina avarizia del proprietario tedesco. Senza scomodare Freud, nel romanzo tutti ingoiano tutto e l’appetito diventa metafora di desideri profondi e di oscure paure. I personaggi principali (Ivan, la moglie Elena, l’amico Timofej) sono paritari ed estremamente soli nei loro drammi e nella loro piccolezza. Solo il coccodrillo è muto, personificazione assurda di una mentalità per la quale l’unico valore è essere al centro dell’attenzione. «E il coccodrillo? Più o meno contento anche lui, a parte qualche dolore di pancia, che gli faceva versare ogni tanto una lacrimuccia, ovviamente, di coccodrillo».
Dopo la pubblicazione, i contemporanei leggono Il coccodrillo come una parodia su Nikolaj Černyševskij, il principale esponente in quel periodo del populismo russo, che, arrestato tre anni prima, si trova nelle viscere della Fortezza di San Pietro e Paolo di San Pietroburgo. La passione di Matveič per le scienze naturali allude alle problematiche affrontate dal populista. Nel complesso, il racconto intende criticare le idee utilitaristiche sostenute dai radicali e dai fourieristi e il ruolo del capitale straniero nell’economia, pronto a sfruttare le risorse del Paese dopo i cambiamenti introdotti con l’abolizione del servaggio.
Lo stesso Dostoevskij, proprio in quel periodo, sta sprofondando nelle fauci del coccodrillo. Sotto il peso della crisi finanziaria, che investe l’Europa e la Russia, gli abbonamenti alle riviste si riducono notevolmente. Per tutto il 1864 e l’anno successivo, lo scrittore deve lottare con i creditori, cercando di salvare «Vremja» senza riuscirvi. Essendo alla disperata ricerca di denaro, egli è costretto a firmare un contratto capestro con l’editore Fëdor Stellovskij, impegnandosi a consegnare un romanzo entro il 1° novembre 1866. In caso contrario, questi potrà pubblicare tutte le sue opere future senza pagare alcun compenso. Ha inizio l’avventura di Dostoevskij, intessuta di vagabondaggio attraverso l’Europa, di gioco d’azzardo, di cupe meditazioni e di intenso lavoro per soddisfare i creditori con le scadenze editoriali.
5. «Delitto e castigo» e «I demoni».L’Occidente e il libero arbitrio
Completamente assorbito dalla scrittura del primo grande romanzo, Delitto e castigo, Dostoevskij non ha che un mese a disposizione, l’ottobre del 1866, per creare un racconto di almeno dodici fogli a stampa e per evitare una vera e propria catastrofe economica. La situazione disperata lo spinge, su consiglio di un amico, ad assumere una stenografa, Anna Grigor’evna Snitkina, vent’anni appena. Anche grazie al prezioso contributo della giovane donna, Dostoevskij riesce a consegnare il racconto, Il giocatore, entro il 31 ottobre, termine ultimo fissato dal contratto capestro. Al centro di questo romanzo breve, o racconto lungo, costituendone di fatto la forza motrice, sta la passione che agita e domina tutti i personaggi russi, scaraventati qua e là per l’Europa.
Principale vittima della passione è, naturalmente, il protagonista del racconto, nonché il narratore in prima persona, Aleksej Ivanovič. Nell’ebbrezza e nel rischio della roulette trova un surrogato del suicidio, frutto evidentemente di un profondo sentimento di insoddisfazione nei confronti di se stesso e di vergogna nei confronti della sua natura poetica, romantica. Aleksej conduce la sua nomade vita disincantata alla ricerca della vincita finale e di una impossibile risurrezione. Ritorna il tema della rigenerazione e della risurrezione, intravista tra le piaghe del Male nella Casa morta, ma qui inseguita su base volontaristica («Posso ritrovare in me l’uomo, finché non è ancora perduto!»), con l’unico risultato di volatizzarsi nel nulla. Siamo nell’orbita di Prestuplenie e nakazanie [Delitto e castigo].
Frattanto la riflessione dostoevskiana, anche in seguito al contatto con l’Europa e alla sua cultura, si arricchisce di nuovi elementi. Emerge, infatti, il problema dello «iato» tra intelligencija europeizzata e popolo ortodosso, del distacco dal suolo natio, che spinge gli «Europei russi» verso la tragica dialettica del libero arbitrio. Secondo Dostoevskij, l’Europa occidentale ha respinto la strada di Cristo, Dio-uomo, per scegliere quella Uomo-dio, cioè la deificazione dell’essere umano. Lo scrittore forse ha ripreso questa idea, ampiamente sviluppata in molte opere, dalla filosofia di Feuerbach, che egli ha studiato in gioventù quale membro del circolo di Petraševskij. Nel corso degli anni Sessanta, tale concezione subirà dei cambiamenti. La religione dell’Uomo-dio, infatti, si trasformerà nella religione dell’arbitrio individualistico, destinata a sfociare nell’omicidio, nel suicidio e nel dispotismo. Nell’ambito di questa triade si sviluppano in effetti i destini dei suoi principali «eroi dell’arbitrio». La prima variante, l’omicidio, è raccontata con la più tragica potenza in Delitto e castigo, pubblicato nel 1866 e ambientato a San Pietroburgo. Il romanzo narra la storia dello studente Raskol’nikov, che cerca una via di uscita dalla miseria, anche per aiutare la madre e la sorella, che vivono poveramente in provincia. Le sue condizioni sociali e la convinzione di potere agire liberamente lo spingono all’uccisione di una vecchia usuraia presso la quale egli ha impegnato vari oggetti e che considera inutile per la società. Pur non avendolo programmato, egli uccide anche la sorella della vecchia, in quanto ha assistito al delitto. Si tratta dell’omicidio in forma «pura», dell’omicidio come «esperimento». Raskol’nikov uccide la donna allo scopo di verificare se è «un pidocchio come tutti gli altri», oppure un vero, libero uomo, un Napoleone che ha il diritto di infrangere le leggi morali, un diritto che gli deriva dall’illimitata autonomia dell’«io». Questa teoria si configura come una variante russa della filosofia ultraindividualistica di Max Stirner che, nella sua opera L’unico e la sua proprietà [Otto Wigand, Leipzig 1844], non riconosce nessuna istituzione, nessuna autorità, superiore all’Uomo-dio. L’unico, l’egoista persegue la propria soddisfazione e non conosce morale, non conosce legge, non conosce modello all’infuori di se stesso: egli è appunto l’unico. E nulla gli è sacro: «l’egoista compie spietatamente la profanazione estrema». Alla fine, grazie all’aiuto morale di Sonja, figlia di un ubriacone, Semën Zacharovič Marmeladov, e incontrata in una bettola, si consegnerà spontaneamente alla giustizia. Proprio grazie al fatto di essersi costituito, Raskol’nikov non è giustiziato, ma deve scontare una pena in Siberia. Il castigo di Raskol’nikov non è il campo di lavoro, ma il tormento che deve sopportare nel corso della vita successiva all’omicidio. Questo tormento si manifesta man mano che matura la convinzione di non essere un «superuomo». La vera sconfitta del protagonista, però, costituisce una sorta di «prova indiretta» per dimostrare che l’uomo non è Dio, non tutto gli è lecito e le norme etiche sono infrangigibili.
Il personaggio positivo, come in altri romanzi di Dostoevskij, è Sof’ja, chiamata anche Sonja o Sonečka. Alla morte del padre, Raskol’nikov manifesta la sua generosità verso la poverissima famiglia. Sonja quindi lo cerca e lo va a ringraziare. Raskol’nikov prova un’attrazione nei suoi confronti a tal punto da confessarle il delitto. Sonja lo sostiene; lo incoraggia a diventare credente e a confessare. Raskol’nikov accetta i consigli quando ormai il colpevole è stato individuato in altre persone. Dopo la confessione, Sonja lo segue in Siberia, dove vive nella stessa città della prigione. Qui trova un’occupazione come sarta e si rende anche utile ai detenuti. Nello stesso tempo, Raskòl’nikov comincia la sua rinascita spirituale, quando finalmente comprende e accetta di amarla. La seconda versione dell’«arbitrio» assoluto è costituito dal suicidio nel romanzo Besy [I demoni], pubblicato in volume per la prima volta nel 1873. In Delitto e castigo Dostoevskij ha sviscerato il tema della libertà individuale e delle nefaste conseguenze che si possono cogliere nei pensieri estremizzati del protagonista, Raskol’nikov. Con I demoni, il romanziere allarga il suo orizzonte, aggiungendo una visione d’insieme della società russa del suo tempo. Il male del libero arbitrio diventa metastasi collettiva. Non si tratta più di capire perché un’individuo diventi un assassino, bensì perché interi gruppi di persone («diavoli, posseduti, spiriti maligni») possano giungere a soluzioni violente, non sempre per ragioni di disperazione e di necessità.
Chi sono I demoni? Nel romanzo se ne possono individuare diversi, ma bisogna parlare di almeno cinque persone che compongono l’organizzazione terroristica di cui si parla nel racconto. Il “vecchio” protagonista è Pëtr Verchovenskij che, come Sergej Nečaev, porta avanti i suoi propositi rivoluzionari, reclutando e organizzando uomini per raggiungere il proprio scopo. Il “nuovo” protagonista è Nikolaj Stavrogin (o Stavroghin), figura che incarna un’altra tipologia di giovane, odiata dall’autore. È un uomo immorale, enigmatico e indifferente a tutto, attorno al quale ruotano, come satelliti, tante vittime del suo oscuro fascino. Insomma, siamo in presenza di un “demone” disposto a travalicare tutto e tutti in nome di una futura e improbabile realizzazione di ideali utopici. Il terzo, Aleksej Kirillov, fa paura per altri motivi. È fautore del suicidio logico, dell’uomo che ama talmente tanto gli altri uomini che vorrebbe insegnare loro ad avere il coraggio di vivere senza il ricorso a un Dio. Il quarto è il filosofo Šigalëv, il più evoluto dei membri, ma con una fisionomia nera e inquietante, alla quale corrisponde una mente altrettanto tetra e perturbante (nei personaggi di Dostoevskij c’è sempre una perfetta corrispondenza psico-fisica). L’“ultimo” è Ivan Šatov, uno studente che ha maturato convinzioni sovversive, ma è intimamente in lotta con se stesso. Il nichilista Verchovenskij, capo della banda, ha pensato di assassinare proprio Ivan Šatov, sospetto traditore della propria organizzazione terrorista. Questo omicidio trova la partecipazione, volente o nolente, dell’intero gruppo, in una sorta di solenne giuramento di fedeltà alla causa. L’originalità di questo atto estremo risiede non tanto nel gesto efferato, quanto nell’utilizzo di Aleksej Kirillov come colpevole consenziente dell’omicidio. Costui, estraneo ai fatti, è ingaggiato dalla cellula per la sua intenzione di suicidarsi. Il legame di Aleksej con Nikolaj Stavrogin è chiaro solo a loro due. Si erano conosciuti a Pietroburgo, e qui Kirillov aveva fatto da testimone di nozze a Stavrogin quando questi aveva deciso di sposarsi clandestinamente. Si pone poi al servizio dell’associazione di Verchovenskij senza farne parte. Kirillov si uccide, prestando la sua causa ad altro, per dimostrare l’idea che per tutta la vita lo ossessiona. Il suo deve essere un esperimento che gli consente di affermare la libertà in un mondo senza Dio. Sparandosi diventerebbe l’uomo-Dio. Kirillov prende la decisione di uccidersi perché affermerebbe così il suo libero arbitrio e si libererebbe di Dio, del quale – se esistesse – non sarebbe che una marionetta.
«Se Dio non esiste, – afferma il protagonista – allora io sono Dio. Se Dio esiste, tutto si compie secondo la sua volontà, e io non posso nulla senza il suo permesso. […] Io non capisco: come può aver saputo l’ateo finora che non ci fosse Dio e non essersi ucciso subito? Capire che non c’è Dio e non capire nello stesso momento d’esser diventato tu stesso un dio è un’assurdità, perché se no ti uccideresti assolutamente da te.
[…] Io proclamerò l’arbitrio, sono obbligato a credere di non credere. Io comincerò, e finirò, e aprirò la porta. E salverò. Solo questo salverà tutti gli uomini e già nella seguente generazione li rigenererà fisicamente; poiché con l’aspetto fisico presente, per quanto ho pensato, l’uomo non può fare a meno di Dio in nessun modo. Per tre anni ho cercato l’attributo della mia divinità e l’ho trovato: l’attributo della mia divinità è l’Arbitrio! È tutto ciò, con cui io posso mostrare nel punto principale la rivolta e la mia nuova paurosa libertà. Poiché essa è assai paurosa. Io mi uccido per mostrare la rivolta e la mia paurosa libertà».
Kirillov vuole distruggere, in questo modo, il terrore della morte e liberare l’umanità da Dio. In realtà, il suicidio sarà utilizzato da un piccolo gruppo di persone per i loro scopi. Questo è il risultato, a livello soggettivo, dell’esperimento sul tema del libero arbitrio. Su scala sociale, il prodotto finale, secondo Dostoevskij, può essere il dispotismo, come esito estremo del socialismo. A teorizzarlo è Šigalëv, lo studioso «della struttura sociale della futura società», il quale, partendo dall’idea della libertà illimitata, approda al dispotismo illimitato. Lo šigaliovismo si fonda sull’eliminazione totale dell’educazione e dell’istruzione, e sulla riduzione in schiavitù dell’intera società. Questa visione dispotica degli equilibri sociali presuppone la divisione degli uomini in due parti. Una parte, il dieci per cento, possiede il potere illimitato, mente il restante 90 per cento perde la personalità, ma raggiunge «la innocenza primigenia, qualcosa come un paradiso terrestre, con questa differenza che devono lavorare». In tal modo, si afferma un’assoluta uguaglianza che non assicura nemmeno la valorizzazione del talento: «A Cicerone si taglia la lingua, a Copernico si cavano gli occhi. Shakespeare viene lapidato, questo è lo scigaliovismo! Gli schiavi devono essere uguali: senza dispotismo non c’è ancora stata né libertà, né uguaglianza, ma nel gregge deve esserci uguaglianza, questo è lo scigaliovismo!».
A queste concezioni Dostoevskij-scrittore contrappone l’idea del ritorno al popolo e al «suolo natio», che ormai fa parte integrante delle sue concezioni, e la missione universale del popolo russo. Il suo messianismo traspare dalla figura di Šatov, il quarto protagonista del romanzo I demoni. Proteso alla realizzazione dei piani di distruzione della società del gruppo di Pëtr, il giovane continua ad esser combattuto. Sostiene di avere trovato la fede in Dio e di essere un fervente credente nella grande missione assegnata al popolo russo. Proprio per questo approdo, al centro del romanzo sta il suo assassinio. Il gruppo terroristico, temendo la denuncia dello studente, un tempo fedele alla causa rivoluzionaria, lo uccide.
Assai contrastata, è la religiosità contrastata di Šatov, il quale è forse l’unico eroe positivo del romanzo. Lo studente, in realtà, non crede in Dio, come è costretto ad ammettere in un serrato dialogo con Stavroghin, bensì nel popolo, che egli innalza al livello di Dio:
«Chi non ha popolo, non ha nemmeno Dio! Sappiate bene che tutti coloro che cessano di capire il proprio popolo e perdono il contatto con esso, perdono subito, nella stessa misura, anche la fede dei loro padri, e diventano o atei o indifferenti […]. Il popolo è il corpo di Dio. Ogni popolo è popolo solo finché possiede il suo Dio particolare, e tutti gli altri Dei li esclude senza nessun compromesso […]. Un popolo veramente grande […] se perde questa fede già non è più un popolo. Ma la verità è una sola e, per conseguenza, uno solo fra i popoli può avere il vero Dio, anche se gli altri popoli abbiano i loro Dei particolari e grandi. Il solo popolo “portatore di Dio” è il popolo russo».
La fede di Šatov è strettamente legata alla fiducia nel proprio popolo, portatore dell’autentico e puro messaggio cristiano. Per il giovane non è possibile scindere principio nazionale e fede, due concetti strettamente legati. Chi nega l’uno nega automaticamente l’altro. Si intravvedono i tratti del messianismo russo, chiamato a svolgere una grande missione di fratellanza universale e di salvezza spirituale nel mondo. Dostoevskij, negli anni successivi, svilupperà questa concezione, evidenziando la possibile vocazione rinnovatrice del popolo russo all’interno della fede ortodossa, in contrapposizione al cattolicesimo e al protestantesimo, nella direzione di una “comprensione universale”.
A questa concezione, proprio in quegli anni, si oppone una critica eccezionalmente aspra e velenosa dell’intelligencija «sradicata» dal paese natio. Dostoevskij condanna il suo ateismo, che è in funzione del distacco dalla mentalità e dai costumi del popolo. «Lei è ateo – dice Šatov a Stravogin – perché è un “giovin signore”, l’ultimo “giovin signore”. Lei ha perso la capacità di distinguere il bene e il male, perché ha smesso di riconoscere il suo popolo». Anzi, lo scrittore collega questo atteggiamento all’origine sociale: «Si procuri Dio con il lavoro. Sta tutto qui. Oppure scomparirà come una vile muffa», dichiara Šatov. «Dio con il lavoro? Con quale lavoro?» domanda Stravogin. «Con quello del contadino», suona la risposta.
L’ideologia di Šatov-Dostoevskij appare allo stesso tempo nazionalista e antiintellettuale. Le idee espresse nei Demoni riflettono una visione parziale, condizionata dall’impressione immediata del processo Nečaev. Qualche anno dopo, questi temi saranno sviluppati e precisati, collegandoli al rapporto tra Russia ed Europa e prospettando qualche esperimento di conciliazione.
6. «L’adoloscente». Quale via per il destino della Russia?
Prima della pubblicazione de I demoni, Dostoevskij ha già terminato a Firenze nel 1868 la scrittura de L’idiota. Egli si trova qui in compagnia della sua seconda moglie, la stenografa Anna Grigor’evna Snitkina, per sfuggire ai creditori. È uno dei periodi più bui della vita dello scrittore, tormentato dalla miseria, dal vizio del gioco e dall’epilessia. L’idiota si fonda su un’idea, «difficile e seducente», che consiste nella rappresentazione di «una natura pienamente bella», alla quale Dostoevskij si aggrappa, come ci si aggrappa a un salvagente durante un naufragio per non affogare. L’incarnazione di questa idea si trova nel principe Myškin, la «natura umana pienamente bella», che richiama la figura di Arkadij Dolgorukij de L’adolescente e di Alëša, de I fratelli Karamazov.
Dopo la pubblicazione di questi romanzi, Dostoevskij raggiunge una certa tranquillità economica. Rinuncia una volta per tutte al vizio del gioco e torna a San Pietroburgo, dove stringe amicizia con Konstantin Pobedonoscev, uno degli intellettuali più influenti e più conservatori di Russia. Nello stesso tempo, il principe Vladimir Meščerkij lo chiama ad assumere la direzione della rivista conservatrice «Graždanin» [Il cittadino], dove inizia la pubblicazione fin dal 1873 della rubrica Il Diario di uno scrittore. In quegli anni Dostoevskij diventa anche amico del filosofo Vladimir Solov’ëv e inizia la stesura del romanzo L’adoloscente.
Protagonista del romanzo è il giovane Arkadij Dolgorukij, figlio illegittimo di Andrej Versilov e della umile Sofia Andreevna. La donna, che vive in povertà, ha avuto dall’amante (il più delle volte assente) due figli, Arkadij e Liza. Quest'ultima ha sempre vissuto con la mamma, mentre Arkadij è stato messo in una pensione. Conscio dell’abbandono, Arkadij medita una rivincita che gli sembra realizzabile solo con l'isolamento e il potere. Appena diciannovenne, quando inizia la narrazione, è una coscienza in divenire, proprio come sarà Alëša Karamazov.
Ambedue presentano tratti comuni. Alëša oscilla tra lo starec [il monaco] Zosima, incarnazione del messaggio cristiano, e il fratello Ivan Karamazov, illustre esponente del sottosuolo. Arkadij, invece, oscilla tra Makar, suo padre legale e portatore anch’egli del verbo di Cristo, e Versilov, suo padre naturale, malato di un astrattismo nocivo per se stesso e per gli altri. Durante il suo totale e commovente stato di abbandono, di solitudine, di esclusione, Arkadij ha maturato un’idea propria, messa a dura, durissima prova dagli eventi, dal disordine che agita il mondo. A Dostoevskij interessa descrivere lo sviluppo morale dell’adolescente, reso complicatoe tortuoso dall’ambiente in cui vive.
Non mancano i suoi segnali di cedimento. Il più importante riguarda la disperata ammirazione del giovane Arkadij per Versilov, odiato e ammirato allo stesso tempo, al cui destino burrascoso egli si trova legato proprio per i sentimenti che prova. Versilov è protagonista tanto quanto Arkadij. Uomo elegante, arguto e sensuale, egli è tragicamente diviso tra la passione per la bella Katerina, ricca e nobile, e l’affetto compassionevole che gli ispira Sofia Andreevna. Non mancano in lui slanci nobili, virtuosi, di generosità e altruismo, ma prevale la predisposizione all’astrattismo, che rischia di condurlo più volte alla rovina. Versilov è un «uomo libresco», appartenente alla categoria degli «uomini di carta stampata» e con un approccio fondamentalmente astratto alla vita, dal quale scaturiscono spesso pensieri radicali ed estremi. Sotto questo aspetto, Versilov è, sorprendentemente, vicino a Stravogin, il funesto demiurgo de I demoni, un uomo tutt’altro che astratto, ma diabolicamente pratico. Entrambi i personaggi concepiscono lo stesso sogno, il sogno dell’età dell’oro: «la più inverosimile – così parla lo stesso protagonista – di tutte le fantasticherie che siano mai esistite, e tuttavia per essa gli uomini davano tutta la loro vita e tutte le loro forze, per essa morivano e venivano uccisi i profeti, senza di essa i popoli non vogliono vivere e non possono nemmeno morire!». Rispetto a Stavrogin, Versilov carica il suo sogno di implicazioni politiche ed ideologiche. Per tali ragioni egli si mostra parente di Stepan Trofimovič Verchovenskij, il nobile liberale ed occidentalista padre ideale dei demoni. L’utopia di Versilov si rivolge al passato e si intravvede in essa un’amara riflessione sugli eventi del 1870, prodotti dalla guerra franco-prussiana. I mutamenti sconvolgenti, con la Comune di Parigi e con l’incendio delle Tuileries, hanno acceso tutta l’Europa. Emerge il suo essere un «comunista parigino», come lo definisce sprezzantemente Nikolaj Semënovič. In realtà, Versilov si ritiene portatore della suprema idea russa, individuata nella «conciliazione generale delle idee». Non sarebbe neppure un messaggio negativo, distante dalla missione conciliatrice, appunto, veicolata dal vangelo, che Dostoevskij dona al popolo russo, ultimo baluardo degli insegnamenti di Cristo. Versilov, però, è avvelenato alla radice dagli influssi socialisti e da quel malsano astrattismo di cui è vittima, in quanto «uomo libresco». A tutto ciò bisogna aggiungere i tratti caratteriali intrisi di superbia e di arroganza che lo spingono a inserirsi nel novero degli eletti chiamati a salvare la Russia:
«Con i secoli da noi si è creato un tipo superiore di uomo colto, mai visto altrove e che non esiste in tutto il resto del mondo: il tipo che prova sofferenza universale per tutti. È un tipo russo, ma siccome è preso nello strato culturale superiore del popolo russo, di conseguenza io ho l’onore di appartenergli. Esso serba in sé l’avvenire della Russia. Forse siamo solo un migliaio – forse più, forse meno – ma tutta la Russia sinora è vissuta solo per produrre questo migliaio. Diranno che è poco, s’indigneranno che per mille persone siano stati spesi tanti secoli e tanti milioni di gente. Secondo me, non è poco».
Il protagonista, così, rifiuta la prospettiva di Dostoevskij che, dopo aver subito il fascino giovanile dell’occidentalismo e del socialismo, si è convinto che solo il popolo russo può salvare la Russia e l’Europa. Versilov, però, non è un personaggio completamente negativo, come Ivan Karamzov. Pur definendosi un «teista filosofico», egli confessa di non saper rinunciare a Cristo, di non potere fare a meno di Lui e di non poterlo immaginare «tra gli uomini divenuti orfani». «Egli veniva a loro, – sono le parole di Versilov – stendeva verso di loro le mani e diceva: “Come avete potuto dimenticarlo?”. E qui era come se una benda fosse caduta da tutti gli occhi e risuonava il grande inno solenne della nuova ed ultima resurrezione». Alla fine del romanzo, Versilov sfiora il delitto e sprofonda nella follia. Nikolaj Semënovič, l’ex precettore di Arkadij, così fotografa il suo carattere:
«È un nobile di antichissima discendenza e, nello stesso tempo, un comunista parigino. È un vero poeta e ama la Russia, ma in compenso anche la nega totalmente. È privo di ogni religione, ma è quasi pronto a morire per qualcosa d’indefinito, a cui non sa nemmeno dare un nome, ma in cui crede appassionatamente, sull’esempio di una quantità di civilizzatori europei russi del periodo pietroburghese della storia russa».
Versilov si sente un «civilizzatore russo», un Russo-Europeo, che appartiene a quei «mille vagabondi», per i quali Dostoevskij nutre simpatia. Questi, dopo essersi umiliati al cospetto della «verità popolare», potrebbero trovare la quiete tramite il superamento del dualismo interiore, prodotto dal distacco del suolo natio. Sotto questo aspetto, assume un significato simbolico la scena in cui Versilov spezza la vecchia icona del pelligrino Makar. Si tratta di un esperimento con il quale il padre di Arkadij vuole verificare se l’icona sbattuta contro l’angolo della stufa si spezzerà in due parti identiche. Di fronte alla riuscita, il viso di Versilov diventa «tutto rosso, quasi purpureo, e ogni piccolo tratto è scosso da tremito». «Sonia, – esclama Versilov – non prenderlo per un’allegoria […]. Non ho voluto spezzare l’eredità di Makar (il primo marito, ormai morto), ma solo così per distruggere. In ogni caso ritornerò a te, ultimo angiolo! Del resto, se vuoi, puoi prenderlo come un’allegoria, in realtà si è trattato veramente di questo».
Il significato simbolico è trasparente. Versilov preannuncia il superamento del dualismo interiore e il ritorno al popolo per mezzo di Sonja, donna del popolo. Il loro matrimonio attesta la futura riconciliazione, l’unione tra l’intelligencija individualistica e il popolo, che un tempo essa ha abbandonato. Quel popolo, malgrado le tentazioni subite (la seduzione di Sonia da parte di Versilov), si è mantenuto fedele ai suoi ideali morali, conservando incontaminata, nella sua ortodossia, l’immagine del Cristo. Queste concezioni saranno sviluppate da Dostoevskij negli anni successivi, raggiungendo il punto più alto nel suo capolavoro I fratelli Karamzov.
7. «I fratelli Karamzov» e «la Leggenda del Grande Inquisitore».
Tra libertà e autorità
Si può convenire che I fratelli Karamazov [Brat’ja Karamazovy], pubblicato sul «Russkij Vestnik» [Il messaggero russo] tra il 1879 e il 1880, sia di gran lunga il romanzo più articolato e complesso di Dostoevskij. Le vicende si svolgono a Skotoprigon’evsk nella seconda metà degli anni Sessanta. Il periodo storico non è una semplice cornice temporale. Proprio in quegli anni, il periodo post-riforme, si delinea una intensa riflessione sui destini della Russia, alla quale dedicherà tanta parte Dostoevskij negli ultimi anni della sua vita.
Nel romanzo si ricostruiscono le vicende della famiglia Karamazov, composta dal padre Fëdor, proprietario terriero lussurioso e guidato dalla smodata ricerca del piacere e del denaro, e dai figli, avuti da varie mogli e lasciati a loro stessi. Dmitrij, libertino quanto il padre ma con un fondo di moralità a lui sconosciuto e incomprensibile, ne condivide la passione per una donna, Grušen’ka. Ivan, razionale e diviso tra la volontà di credere in Dio e il rifiuto della fede, è una figura tipicamente dostoevskiana di intellettuale tormentato. Alëša, il più giovane, è novizio in monastero e puro fino all’ingenuità, di cui Dostoevskij avrebbe voluto raccontare la vita in un futuro romanzo. C’è poi un quarto figlio Smerdjakov, epilettico e crudele, nato da una relazione illegittima di Fëdor con una demente e relegato al ruolo di servo. Con l’eccezione di Alëša, che in ogni caso non riesce ad amarlo, tutti odiano il padre.
Il racconto si apre con una lite furibonda per questioni di eredità tra Dmitrij e Fëdor e ha il proprio epicentro nell’omicidio di quest’ultimo per mano di Smerdjakov, che ha agito incoraggiato dai discorsi parricidi di Ivan. Tutti i fratelli, in qualche modo, sono colpevoli o corresponsabili della morte del padre. Dmitrij per averla desiderata, Alëša per non aver saputo, nella sua purezza, scorgere l’incombenza della tragedia, Ivan per essere stato il mandante indiretto dell’omicidio con le sue teorie sull’inesistenza di Dio e sul «tutto è permesso». I tre fratelli costituiscono dunque una sorta di «unità morale», una personalità collettiva, di cui ognuno rappresenta un aspetto: la passione, la ragione, l’amore cieco. Del delitto è accusato Dmitrij, che la notte dell’omicidio si era introdotto in casa di Fëdor con un pestello. Mentre inizia il processo, Smerdjakov, abbandonato da Ivan, si uccide.
Il processo di elaborazione della colpa, – uno dei temi centrali del romanzo – è molto diverso per ognuno dei fratelli. Ivan, ammalatosi di una specie di febbre cerebrale, capisce presto di essere il vero assassino, racconta ad Alëša, in uno dei capitoli più celebri della letteratura di tutti i tempi, una leggenda scritta di suo pugno: quella del Grande Inquisitore. Alëša, un mistico incapace di intervenire sul mondo, si innamora della giovane Liza, che lo accuserà di essere stato un vile per non avere saputo mettere un freno alla spirale di violenza. Infine, Dmitrij, conscio del proprio desiderio omicida, si fa carico della colpa di tutti e accetta la condanna ai lavori forzati, perché «noi tutti siamo colpevoli per tutti […]. E io andrò là per tutti, perché bisogna pure che qualcuno vada là per tutti […]. Noi saremo in catene, noi non avremo più la libertà, ma proprio allora, nel nostro grande dolore, rinasceremo alla gioia».
I temi principali sono la colpa, l’accettazione della sofferenza, la ricerca dell’amore universale, la libertà di scelta, l’esistenza di Dio. L’opera, definita un «grande romanzo polifonico», contiene la summa del pensiero dostoevskijano. Fondamentale per la sua comprensione è l’epigrafe tratta dal Vangelo di Giovanni: «In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano che cade nella terra non morrà resterà solo; ma se morrà, darà molti frutti». Con ciò Dostoevskij allude alla grande trasformazione spirituale e morale che accompagna i tre fratelli, i quali, percorrendo vie diverse, arrivano alla rigenerazione e si avvicinano all’idea di un amore universale, che è alla base dei grandi romanzi dostoevskiani. Ecco le parole di Dmitrij:
«Noi siamo nature vaste, capaci di riunire in sé tutti i contrasti possibili e di contemplare contemporaneamente tutti e due gli abissi, l’abisso che è al di sopra di noi, cioè quello dei supremi ideali, e l’abisso che è sotto di noi, cioè quello della più abietta e più fetida degradazione. […] Siamo vasti, vasti come la nostra amata madre Russia, noi mettiamo tutto insieme e conviviamo con tutto!». Il racconto di Ivan al fratello Alëša, la Leggenda del Grande Inquisitore [Velikij Inkvizitor] rappresenta il vertice del pensiero di Dostoevskij. In modo più incisivo e analitico, il romanziere riprende e sviluppa la questione del libero arbitrio e il contrasto tra la libertà e l’autorità. Nella Leggenda, Gesù riappare sulla terra a Siviglia ai tempi della Santa Inquisizione ed è imprigionato come eretico. Il Grande Inquisitore si reca da lui nella notte e lo apostrofa lungamente sul problema del valore della libertà per l’uomo. Alla libertà, dono terribile che Dio ha voluto fare agli uomini, il Grande Inquisitore oppone il miracolo, il mistero e l’autorità.
L’Inquisitore, nel suo ruolo salvifico, cela, dietro una immagine esangue, quasi a competere con le sofferenze del Cristo, la fredda determinazione dell’uomo di potere. Lo accusa di avere promesso «la libertà, che gli uomini nella loro semplicità non possono concepire», e «il pane celeste», inconciliabile con il pane terreno in abbaddanza per tutti.
Tu non scendesti dalla croce quando per schernirti e provocarti Ti gridavano “Scendi dalla croce e crederemo che sei proprio Tu”. Non scendesti perché non volevi rendere schiavo l’uomo con un miracolo, perché avevi sete di una fede nata dalla libertà e non dal miracolo. Desideravi un amore libero, e non i servili entusiasmi dello schiavo al cospetto del potere che lo ha terrorizzato per sempre. Ma anche in questo caso hai avuto un’opinione troppo alta degli uomini: benché nati ribelli, essi sono schiavi. 34
[…] L’anima debole ha forse colpa se non è in grado di accogliere in sé doni così tremendi? O forse sei venuto davvero soltanto per gli eletti, dagli eletti? Se è così, si tratta di un mistero a noi incomprensibile. E se è un mistero, anche noi avevamo dunque il diritto di predicare il mistero e di insegnare agli uomini che non la libera decisione dei cuori né l’amore sono importanti, ma il mistero, a cui devono rassegnarsi ciecamente, anche contro la propria coscienza. Così abbiamo fatto. Noi abbiamo corretto la Tua opera, l’abbiamo basata sul miracolo, sul mistero e sull’autorità.
Da qui deriva l’insistenza sulla necessità di una correzione dell’opera divina, che sia più compassionevole nei confronti degli uomini deboli, i non eletti, quelli che non «hanno la forza di disprezzare il pane terreno per quello celeste», gli uomini schiacciati dal determinismo delle condizioni. Paradossalmente, il Grande Inquisitore denuncia una mancanza d’amore nel dono di questa terribile libertà. La salvezza, per essere davvero pietosa, deve riguardare tutti gli uomini, i forti e i deboli. L’ordine del mondo è troppo prezioso per metterlo a rischio con il ritorno delle parole del Cristo. L’Inquisitore, in tal modo, svolge un ruolo apparentemente benigno, perché salva l’uomo dal pericolo ma, nel contempo, lo priva della libertà. «L’umanità – sostiene - va gestita come un gregge e noi questo lo sappiamo fare e tu non puoi disturbare questo nostro progetto. La tua possibilità l’hai avuta ora tocca a noi». Egli sa che l’uomo è una creatura fragile, e perciò lo affranca dal peso della libertà, dal fardello della propria coscienza e della responsabilità personale. Sostituisce la libertà con l’autorità, l’unità nella libertà con quella basata sulla costrizione. Alla fine l’Inquisitore emana la condanna al rogo: «vedrai questo gregge obbediente, che al mio primo cenno si precipiterà ad attizzare i carboni ardenti». Arriva il colpo di scena. Cristo ha sempre ascoltato in silenzio, ma ora l’Inquisitore «vorrebbe che dicesse qualcosa, sia pure di amaro, di terribile». «Ma egli tutt’a un tratto si avvicina al vecchio in silenzio e lo bacia piano sulle esangui labbra novantenni». Cristo lo ha perdonato. Il bacio, però, non è un atto unilaterale. L’Inquisitore sussulta e le sue labbra hanno un tremito, a dimostrazione che tra i due avviene una comunicazione. Cristo è liberato, a patto che non ritorni mai più e non vada da dove è venuto, ma «per le buie vie della città», cioè in mezzo agli uomini. Molto si è discusso e si discute sulla Leggenda e sul finale (da Romano Guarini a Nikolaj Berdjaev, a Vasilij Rozanov e a Gustavo Zagrebelsky). I temi affrontati, quali il rapporto tra fede e libertà di scelta, tra la responsabilità individuale e quella collettiva, tra giustizia, peccato e redenzione, non riguardano, secondo gli studiosi, la Russia ortodossa del secolo XIX, in cui si svolge il dramma dei fratelli Karamzov, ma l’essere umano di ogni tempo e luogo. Accanto alle tante e interessanti riflessioni della Leggenda, si può anche ipotizzare che, con il bacio di Cristo al Grande Inquisitore, si realizzi un accordo o, forse, un compromesso. Cristo è liberato a condizione di andare “per le vie oscure della città”, cioè di stare vicino al popolo e di stabilire un rapporto tra intelligencija, religione e popolo. In tal modo, secondo Dostoevskij, si potrebbe arrivare al superamento del conflitto tra libertà e autorità e alla vittoria morale del Dio-uomo sull’uomo-Dio. Su questi temi, assieme a quello del rapporto Russia-Europa, lo scrittore ritorna negli ultimi anni della sua vita, producendo le riflessioni apparse nel Diario di uno scrittore.
8. «Diario di uno scrittore». L’appello alla conciliazione e alla fratellanza
Nel dicembre del 1872, Dostoevskij accetta la proposta del principe Meščerkij, editore e pubblicista, di diventare direttore della rivista «Graždanin» [Il cittadino]. Inizia così la rubrica Diario di uno scrittore, per la quale lo scrittore continua a impegnarsi dopo avere lasciato la direzione nel 1874. Il Diario, pubblicato mensilmente, esce con successo per tutto il 1876 e il 1877. Interrotto durante la stesura de I fratelli Karamzov, riprende nel fascicolo di agosto del 1880, mentre l’ultimo numero (8 gennaio 1881) esce il giorno dei funerali di Dostoevskij. «Un quaderno degli appunti», che per volere dello stesso autore saranno raccolti in volume.
Quest’opera coniuga svariate tecniche scrittorie, sulle quali quali ha molto insistito la storiografia. Ormai si ritiene che non si possa parlare di un’opera unitaria e trovare per essa una collocazione nel sistema dei generi. Non ha fondamento neanche il dilemma, sollevato già dai contemporanei, se il Diario rientri nell’attività giornalistica o nell’attività artistica. Sin dagli anni Sessanta nelle riviste di Dostoevskij sono apparsi articoli critici di letteratura e di politica e romanzi veri e propri. Va anche evidenziato che nelle oltre mille pagine, assieme ai fatti di cronaca, alle recensioni, ai racconti, si incontrano molte riflessioni sulla Russia e sul rapporto con l’Europa.
Parecchie delle idee di quegli anni, basate sulla teoria del počvenničestvo, non solo ritornano nel Diario, ma trovano un loro sviluppo. Pertanto, Dostoevskij introduce delle modifiche in ordine al suo atteggiamento di fronte all’Europa ma anche di fronte alla stessa Russia. Già nella rivista «Vremja», egli ha individuato la peculiarità del messianesimo che non respinge gli «dei stranieri», ma attribuisce al popolo russo il compito supremo di una riconciliazione universale: riconciliazione dell’Europa con la Russia, dell’intelligencija con il popolo. Nel 1877 le stesse idee sono così sviluppate nelle riflessioni del Diario dal titolo Confessioni di uno slavofilo:
«Oh se sapeste – così egli scrive nel 1877 – quanto è cara a noi, sognatori-slavofili, l’Europa, quella stessa Europa che, secondo voi, noi odiamo, quel “paese dei sacri prodigi”. Se sapeste come ci sono cari quei prodigi, quanto amiamo e onoriamo le grandi stirpi che la popolano, e tutte le loro grandi e splendide opere. […] Ma voi, nostri europei e occidentalisti, avete amato tanto l’Europa come noi sognatori-slavofili che, secondo voi ne saremmo i secolari nemici! No, ci è caro questo paese e la futura pacifica vittoria del grande spirito cristiano, che si è conservato in Oriente […]. Temiamo che l’Europa non ci capisca e come prima, come sempre, ci accolga con alterigia e disprezzo e con la sua spada, come barbari selvaggi, indegni di parlare davanti a lei».
Dostoevskij si ritiene «slavofilo sognatore», ma reagisce contro le accuse di slavofilismo formulate nei suoi confronti. Le parole utilizzate hanno una sfumatura ironica, tanto più che nel Diario i suoi giudizi negativi sugli slavofili si incontrano a piene mani: «Gli slavofili hanno una rara qualità di non riconoscere i propri e di non capire nulla della realtà contemporanea». La contrapposizione tra slavofilismo e occidentalismo si incontra molto frequente, pur nell’ambito del programma del 1861 che per Dostoevskij mantiene sempre la sua attualità: «Che forse gli occidentalisti non hanno la stessa intuizione dello spirito e della nazionalità russa che hanno gli slavofili?». Con ciò, lo scrittore vuole evidenziare l’elemento paradossale che porta lo slavofilismo a non riconoscere i propri simili e a rompere con la realtà.
«In ogni caso, – scrive Dostoevskij – l’occidentalismo era sempre più reale dello slavofilismo e, nonostante tutti i suoi errori, tuttavia è andato più lontano, è rimasto in movimento, mentre lo slavofilismo non si è mosso di un un palmo e se n’è fatto vanto […]. Noi, da parte nostra, affermiamo come un fatto, e crediamo fermamente che nell’odierno quasi universale ritorno al popolo, consapevole e inconsapevole, l’influenza degli slavofili ha avuto una parte molto scarsa, o magari non ne ha avuta alcuna».
Queste considerazioni mostrano l’eccezionale importanza del Diario, nel quale il contrasto tra Russia ed Europa ha un particolare posto, indispensabile per la comprensione del comportamento di diversi protagonisti dei romanzi dostoevskijani. Nella veste di giornalista, lo scrittore non si allontana dai temi degli anni Sessanta. Egli non può mutare radicalmente atteggiamento senza rinnegare quella fede nella Russia che gli dettano le parole del gennaio 1877, scritte nella sua rubrica con il titolo Un sogno di conciliazione fuori della scienza, e meritevoli di essere poste come epigrafe del Diario: «Ogni grande popolo crede e deve credere, se vuole restare a lungo in vita, che in lui, e soltanto in lui è racchiusa la salvezza del mondo e che vive per essere alla testa dei popoli, attrarli tutti a sé e portarli in un coro armonico, a uno scopo definitivo, a loro tutti predestinato».
Il Diario, quindi, offre molti elementi per la comprensione della personalità di Dostoevskij. Una sintesi delle sue ventennali meditazioni si trova nella famosa orazione su Puškin, pronunciata l’8 giugno 1880, in occasione dell’inaugurazione del monumento al poeta, a Mosca. In quel discorso, considerato unanimente il suo testamento spirituale, Dostoevskij riprende e sviluppa l’idea di Apollon Grigor’ev su Puškin come espressione sintetica dello spirito russo e come fenomeno «profetico», che aveva indicato alla nazione la sua missione. Nell’interpretazione dostoevkiana, il grande poeta ha individuato in Aleko, protagonista dell’opera gli Zingari, quel tipo di «vagabondo infelice», che va a cercare presso gli accampamenti degli zingari e nel loro selvaggio modo di vivere «gli ideali universali e il riposo».
Lo stesso filo conduttore si trova in Evgenij Onegin. Il giovane dandy ozioso, «l’eterno vagabondo» disilluso dalla vita, trova nell’amore per Tat’jana, legata alle tradizioni spirituali natie e al popolo, la soluzione alla disperazione e ai dubbi. Puškin, nel confronto incessante tra i «vagabondi russi» e la «verità popolare», indica una soluzione: «Se ti vincerai e ti umulierai, diventarai libero, come non hai mai immaginato che si possa essere, e inizerai la grande opera di dare la libertà agli altri, e conoscerai la felicità, perché la tua vita si riempirà e tu comprenderai finalmente il tuo popolo e la tua santa verità». Tutta l’opera puškiniana appare a Dostoevskij come un confronto incessante tra i «vagabondi russi» e la «verità popolare», che presuppone la necessità di avvicinarsi al popolo.
Il «ritorno alla patria», però, non comporta la rinuncia a un ideale universalistico. Puškin è scrittore profondamente nazionale, ma capace di incarnarsi in una nazionalità straniera. Questa sensibilità egli la condivide con il popolo: essere un vero Russo equivale a diventare, come risultato ultimo, fratello di tutti gli uomini, uomo universale. Ne consegue che la divisione fra slavofili e occidentalisti è solo un equivoco, anche se un equivoco storicamente necessario e legittimo. Il senso riposto delle riforme di Pietro il Grande sta proprio in ciò, nell’allargamento delle relazioni della Russia con i popoli europei. «Perché? – si chiede lo scrittore – cosa ha fatto politicamente la Russia durante tutti questi due secoli se non servire l’Europa, servirla, forse, meglio più di se stessa?».
Dostoevskij, nel suo discorso, ha scelto la via della pacificazione e cita gli avversari con cui da anni è in competizione (Turgenev, Nekrasov e anche Tolstoj). Come ai tempi di «Vremja», tenta di conciliare slavofili e occidentalisti, indicando in Puškin «un grande mistero» e un’eredità. Indica, quindi, la sintesi profetica tra patriottismo autoctono e apertura all’Europa.
«Sì, la missione dell’uomo russo è indubbiamente paneuropea e universale. Diventare un russo autentico, diventare pienamente russo, forse, significa solo diventare di tutti gli uomini, paneuropeo, se volete. […] A un vero russo l’Europa e il destino di tutta la grande razza ariana stanno a cuore quanto la Russia stessa, quanto il destino del proprio paese, perché il nostro destino è l’universalità, acquistata non con la spada, ma con la forza dell’aspirazione fraterna nell’unione di tutti gli uomini [il corsivo è mio].
[…] I popoli d’Europa non lo sanno neppure, quanto essi ci sono cari! E più tardi, ne ho piena fede, noi, cioè coloro che verranno, i futuri russi, comprenderanno tutti, dal primo all’ultimo, che diventare un vero russo significherà precisamente aspirare alla definitiva riconciliazione delle contraddizioni europe, mostrare la via di uscita alla tristezza europea. L’animo russo, profondamente umano, saprà abbracciare con amore fraterno tutti i nostri fratelli e, alla fine, forse, dirà la definitiva parola della grande armonia universale, dell’accordo definitivo fraterno di tutte le razze, secondo la legge evangelica di Cristo!».
Dostoevskij, con questo discorso, sembra convinto che sia arrivato il momento della riconciliazione generale all’interno del Paese e tra la Russia e l’Europa sulla base della comune fratellanza. È, questa, un’utopia o una sfida, che resta ancora aperta, come tanti altri problemi sollevati da Dostoevskij nella sua opera letteraria.
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