Язык и текст
2017. Том 4. № 1. С. 69–82
doi:10.17759/langt.2017040108
ISSN: 2312-2757 (online)
Napoleone Colajanni La Grande guerra e la Rivoluzione russa
Аннотация
In questo saggio l’autrice studia l’influsso degli eventi rivoluzionari russi sull’attività politica e istituzionale di Napoleone Colajanni, interventista democratico, durante e dopo la Prima guerra mondiale. Dall’analisi degli scritti, apparsi in diverse riviste, emergono l’entusiasmo di Colajanni per la Rivoluzione di febbraio e la condanna della Rivoluzione di ottobre che, ritenuta antidemocratica e autoritaria per l’applicazione dell’ideologia bolscevica, aveva spostato su posizioni massimaliste il riformismo italiano. Da qui derivavano le sue sollecitazioni per coniugare il socialismo con la democrazia, anche se prima della morte Colajanni manifestò qualche simpatia nei confronti dei primi passi del fascismo.
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Ключевые слова: ideologia nazionale, comunicazione interculturale
Рубрика издания: Межкультурная коммуникация и проблемы глобализации: психо-, социо- и этнолингвистика
Тип материала: научная статья
DOI: https://doi.org/10.17759/langt.2017040108
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Allo scoppio della Prima guerra mondiale Napoleone Colajanni, ormai in piena maturità, era un intellettuale e un politico che si poteva annoverare tra i più prestigiosi esponenti della democrazia italiana ed europea. Dalle posizioni anticolonialiste durante la guerra di Libia si era gradualmente spostato su posizioni interventiste, seguendo gli insegnamenti di Mazzini, che insieme al positivismo e al socialismo, erano stati alla base della sua formazione politica e culturale. Sappiamo che nel corso della sua vita (era nato nel 1847 a Castrogiovanni, ora Enna) era stato protagonista di molti eventi storici di rilievo (dagli scandali bancari ai Fasci siciliani e alla reazione di fine secolo), ma la Prima guerra mondiale rappresentò per lui, come per molti contemporanei, un’esperienza importante [1].
Recenti studi hanno evidenziato la sua appartenenza all’interventismo democratico. A differenza dei sindacalisti rivoluzionari, favorevoli alla violenza in quanto generatrice di movimenti politici e convinti della necessità dell’intervento dell’Italia per la sua affermazione come potenza europea, i democratici interventisti affondavano le loro radici nel pacifismo e nel principio di nazionalità. Per questa corrente la partecipazione alla guerra non si inseriva nell’ambito delle mire imperialistiche per la conquista di un posto di rilievo, ma come la conclusione del Risorgimento e la realizzazione dell’indipendenza dei popoli slavi che vivevano all’interno dell’Impero austro-ungarico e dell’Impero ottomano [2].
I principi dell’interventismo, però, comportavano una tensione tra la loro affermazione originale e la possibilità di un compromesso con l’ideologia nazionale delle classi dirigenti. Secondo Giuliana Procacci, che ha affrontato in un saggio pioneristico tale questione, gli interventisti democratici non ebbero una loro autonomia politica poiché i liberali moderati e il governo guardarono al loro programma con diffidenza e con sospetto [3]. La politica di Salandra e, soprattutto, quella dello Stato Maggiore volevano una guerra tradizionale, che esulava da ogni riferimento alla versione garibaldina, puntando al rafforzamento dell’Italia come grande potenza in Europa e nell’Adriatico e a una politica interna iberal-conservatrice.
Questa linea di tendenza era conforme allo schema di Arno J. Mayer, il quale tra gli interventisti distingueva “le forze dell’ordine” e “le forze del movimento”. Secondo lo storico statunitense le prime erano favorevoli alla diplomazia tradizionale e al ridimensionamento delle pulsioni rivoluzionarie, mentre le seconde, liberal-radicali e socialiste, insistevano per la democratizzazione delle relazioni internazionali e per una politica di riforme interne [4]. Per quel che riguardava l’Italia, le prime non riuscirono a ottenere, a differenza di altri Paesi, l’adesione delle “forze del movimento” e, in particolare, del partito socialista che si attestò sulla linea pacifista. Alla tregua politica parteciparono soltanto forze minoritarie della democrazia repubblicana, della sinistra radicale e socialista, come Salvemini, Bissolati e Colajanni. L’orientamento del governo italiano, quindi, non era in linea con l’assetto europeo voluto dagli interventisti democratici.
Appena iniziata la guerra, i rappresentanti di questo gruppo avanzarono la richiesta di un governo nazionale con un programma che doveva collocarsi nell’ambito della «diplomazia aperta» e con un rafforzamento della «tregua politica» non egemonizzata dalle «forze dell’ordine». Nello stesso tempo si chiedeva la costituzione, sul modello francese, delle commissioni parlamentari di controllo [5] . Naturalmente la costituzione di un governo di sinistra a sostegno della guerra avrebbe richiesto il superamento della frattura di tutte le forze democratiche (compresi i socialisti e i giolittiani), che altrimenti sarebbero state subalterne alla destra interventista di Salandra e di Sonnino [6].
Colajanni, sin dall’inizio del conflitto, si collocò all’interno dell’interventismo democratico e a favore dell’autodeterminazione dei popoli e dell’affermazione delle nazionalità. Il primo dibattito su questi temi si svolse alla Camera il 1° marzo 1916. A guidare l’opposizione nei confronti del governo fu il leader Leonida Bissolati che intervenne non soltanto a nome del gruppo socialista riformista, ma anche dei radicali, dei democratici costituzionali e dei repubblicani. Per il momento non si arrivò alla sfiducia, ma l’esito della Strafexpedition nel giugno 1916 provocò la caduta del governo Salandra [7] . La crisi ricevette particolare attenzione da parte di Colajanni che, riconosciuta la gravità del momento, non mancò di rilevare la scarsa duttilità politica di Salandra e il poco rispetto delle varie correnti parlamentari [8].
Si arrivò poi alla formazione del governo Boselli con la presenza di tre socialisti riformisti (Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi e Giuseppe Canepa) e di un repubblicano (Ubaldo Comandini), chiamati a ricoprire incarichi di tipo sociale. Del nuovo esecutivo, nato con il contributo di forze politiche non omogenee, facevano parte Vittorio Emanuele Orlando, ministro dell’Interno e favorevole a una politica di riconciliazione con le opposizioni, e Sidney Sonnino agli Esteri, come simbolo di continuità con l’originario progetto della destra, mentre Bissolati fu il principale sostenitore della linea, ispirata da Wilson, di autodeterminazione dei popoli [9]. Fu difficile tenere insieme queste posizioni eterogenee, dalle quali scaturiranno forti contrasti nel 1917 sulla politica interna e nel 1918 (con il governo Orlando) sulla politica estera. Per il momento il nuovo governo riscosse la fiducia di Colajanni, che accolse con favore l’ingresso di un repubblicano nella nuova compagine [10].
L’esperienza italiana era ben lontana da quella in corso in Inghilterra, che si era concretizzata nella convergenza di forze di origine socialista e di esponenti liberal-radicali su un programma di politica estera democratica e ostile alla tradizionale politica di potenza [11]. Nel corso della guerra molti interventisti democratici coniugarono questi principi con la necessità di mantenere l’ordine e di condurre una lotta contro i cosiddetti «nemici interni» che svolgevano un’azione antipatriottica. La rivoluzione di febbraio in Russia influì in modo determinante sulla loro politica. Tramite l’analisi delle posizioni di Colajanni si può cogliere la costruzione del “mito” del febbraio russo. Con l’avvento al potere dei bolscevichi, viceversa, il deputato siciliano si spostò su posizioni più intolleranti e vicine alle “forze dell’ordine”.
Arrivate in Italia le prime notizie della rivoluzione russa di febbraio, gli interventisti cominciarono a temere che il nuovo regime potesse schierarsi a favore della pace, ma furono rassicurati dalle dichiarazioni del nuovo ministro degli Esteri russo, P.N. Miljukov, sulla prosecuzione del conflitto [12]. Si assistette, perciò, all’esaltazione del febbraio russo perché, con il crollo dell’autocrazia, veniva meno il movente principale utilizzato dagli Imperi centrali per giustificare il loro ingresso in guerra. Colajanni, intervenendo alla Camera nel marzo 1917, sostenne che la Russia, con la recente rivoluzione, aveva compiuto il suo 1789. Insistette sull’analogia tra quanto avvenuto in Russia e quanto in Italia nel maggio del 1915. In ambedue i Paesi, una minoranza dinamica, che interpretava la volontà popolare a favore della guerra, aveva sconfitto le forze antipatriottiche [13].
Frattanto, la partecipazione degli Stati Uniti al conflitto suscitò speranze ed entusiasmi, pari e talvolta superiori agli avvenimenti russi. Il principio di Wilson di una pace senza vincitori né vinti fu accolto con esultanza dagli interventisti democratici che vedevano confermata la loro concezione della guerra a favore dell’autodeterminazione dei popoli in contrapposizione a quella nazionalistica e liberal-nazionale sonniniana. Ormai si riteneva che con l’intervento degli Stati Uniti la guerra antitedesca fosse diventata una guerra per la pace. Nella sua rivista, Colajanni si lasciò andare all’entusiasmo fino a fare della guerra non solo la crociata di tutte le democrazie contro le tirannidi, ma anche lo strumento di liberazione dei popoli, riconoscendo nei principi di Wilson il credo mazziniano e la fine di tutte le diplomazie [14].
All’inizio dell’estate l’atteggiamento degli interventisti italiani nei confronti della Russia mutò. Vi contribuì la crisi del governo, risoltasi con le dimissioni di Miljukov, che resero evidente non solo il potere di condizionamento del Soviet, ma anche la forza di pressione delle masse contadine e il sentimento antibellico. Dopo l’arresto dell’offensiva italiana sul Carso, con accenti polemici si attribuì la responsabilità alla defezione militare russa. Dalla stampa interventista di sinistra emersero le delusioni rispetto alle iniziali speranze. Si riteneva che la Russia del febbraio non esistesse più, complice un governo debole e inefficiente. Colajanni scrisse che la Russia «ormai non era più uno Stato, né una nazione, né un organismo» [15].
Il deputato siciliano seguì le vicende della Russia alternando entusiasmo e sfiducia. Quando all’inizio di luglio arrivarono le notizie sulla ripresa delle operazioni militari di questo Paese in Galizia, il suo giornale fece autocritica per le precedenti posizioni. Di fronte alla controffensiva tedesca e poi all’insurrezione di Pietrogrado, emersero delusione e pessimismo. Colajanni ricondusse la rotta dell’esercito russo all’azione rivoluzionaria dei leninisti. La repressione dei moti e i provvedimenti adottati da parte del governo Kerenskij non bastavano più a riprendere l’offensiva militare. Il mito russo doveva servire da monito per tutti coloro che volevano lasciare libertà al dissenso contro la guerra [16].
Ormai questo problema era all’ordine del giorno. Lo imponevano gli episodi di indisciplina e di insubordinazione al fronte e le agitazioni contro la guerra soprattutto nelle regioni industriali. Di fronte all’insurrezione di Torino dell’agosto 1917, il governo avviò una dura repressione. Per le vicende interne e internazionali (in Russia era fallito il colpo di Stato del generale Kornilov), alcuni settori della classe dirigente cominciarono a spingere per un governo capace di avviare una politica moderata senza la partecipazione dell’interventismo più acceso. Si stavano svolgendo le prime trattative in questa direzione, quando il 24 ottobre 1917 giunse nella capitale la notizia della disfatta di Caporetto [17].
Crollato il fronte russo, gli austriaci insieme con i tedeschi riuscirono a travolgere la Seconda Armata italiana. Alla sconfitta contribuirono la profonda prostrazione e la stanchezza delle truppe, un problema che accomunava tutti i Paesi belligeranti. Nonostante nelle settimane successive fossero state accertate le responsabilità di Cadorna, la campagna antisocialista riprese con violenza. Tutta la stampa interventista, compreso Colajanni, chiese un governo forte per il controllo e per la repressione «dei nemici interni», soprattutto dopo l’arrivo delle notizie sulla rivoluzione di ottobre [18]. Il nuovo regime, secondo il deputato repubblicano, aveva rafforzato il militarismo tedesco senza mantenere la promessa della liberazione del popolo russo e della salvaguardia dell’identità nazionale della Lituania, dell’Estonia e dell’Ucraina [19].
Dopo il disastro di Caporetto e le dimissioni di Boselli, si costituì il governo Orlando che ebbe un ampio sostegno in Parlamento. Passato il momento più drammatico per le sorti militari e politiche, la linea intransigente cominciò a trovare consensi nei settori liberali e democratici. Per contrastare l’affermazione delle posizioni neutraliste, il 9 dicembre 1917 si costituì un nuovo gruppo parlamentare formato da rappresentanti dell’interventismo conservatore, nazionalista e democratico. Nacque così il “Fascio parlamentare di difesa nazionale” (158 membri alla Camera e 98 al Senato) con l’obiettivo di controllare le sorti e l’indirizzo del governo [20].
Colajanni aderì a questo nuovo gruppo parlamentare. Coerente con la linea di riscossa nazionale, questa scelta segnò un definitivo mutamento del suo atteggiamento nei confronti della sinistra, tacciata di volere disperdere il sacrificio dei combattenti e l’immane sforzo per conseguire la vittoria. A spingerlo in questa direzione contribuì soprattutto la convinzione di rinsaldare il legame tra uomini e partiti disposti a lottare contro il mito della rivoluzione russa e la diffusione delle idee bolsceviche tra i lavoratori. L’esperimento russo e la tenace volontà dei socialisti di introdurlo anche in Italia divennero un bersaglio per il deputato siciliano, che negli ultimi anni della sua vita si batté per scongiurare la minaccia della rivoluzione comunista [21].
Colajanni, nonostante l’appartenenza al Fascio parlamentare, non si discostò dalle sue concezioni mazziniane sulla sistemazione dell’Europa e sulla questione adriatica. Non lo convinsero le eccessive rivendicazioni nel litorale adriatico, le quali avrebbero alimentato l’irredentismo slavo all’interno dell’Italia e i nazionalismi in Italia e in Oriente. Con sano realismo, il deputato siciliano sostenne sempre l’italianità di Fiume e approvò il compromesso del trattato di Rapallo, che per i nazionalisti e per il fascismo stava alla base del mito della “vittoria mutilata”. Le sue critiche alle mire irredentiste di Mussolini e di D’Annunzio non bastarono ad allontanarlo dal fascismo al quale guardò con favore come strumento per la pacificazione del Paese [22].
Alla maturazione di queste convinzioni, non sempre lineari e definitive, contribuirono le vicende della Russia, alle quali Colajanni guardava attraverso il filtro dell’antibolscevismo. In alcuni scritti di questo periodo egli, tramite la lettura delle teorie e dell’impegno dei bolscevichi, iniziò una lotta senza tregua contro i socialisti e i repubblicani italiani attratti dal leninismo [23]. Pur non avendo una conoscenza diretta della situazione russa, Colajanni cercò di raccogliere le notizie e le informazioni necessarie a suffragare il suo progetto politico e la malafede degli apologeti del comunismo. L’obiettivo principale era quello di spingere i socialisti alla rottura con il regime bolscevico che si muoveva nella direzione completamente opposta ai loro principi.
Secondo Colajanni, la rivoluzione bolscevica aveva origini corrotte, poiché era nata, a differenza della rivoluzione francese del 1789, dalla volontà di un manipolo di uomini attivi senza il sostegno della stragrande maggioranza della popolazione. A tal proposito egli ricostruiva le vicende della Costituente che si configuravano come un colpo di Stato da parte dei comunisti in presenza delle condizioni di arretratezza del popolo russo. Sul piano economico registrava un clamoroso fallimento per la crescita del debito pubblico e dell’inflazione, che aveva prodotto la pratica del baratto, e per il peggioramento delle condizioni lavorative. Diversamente dagli altri Paesi europei, la Russia non conosceva un esodo rurale e un processo di urbanizzazione, mentre cresceva il tasso di mortalità che superava quello della natalità. Dominavano la miseria e la fame, non riconducibili all’embargo dei Paesi capitalisti, ma alle errate scelte di politica economica [24].
Colajanni analizzava l’organizzazione del potere introdotta dal governo bolscevico. Incentrato soprattutto sulla guerra al fine di provocare sentimenti rivoluzionari in altre nazioni, esso si configurava come un regime militare peggiore di quello prussiano. Si rafforzava la burocrazia, che comportava la crescita degli scandali, dell’arbitrio e della corruzione. Dai primi provvedimenti adottati si poteva evincere che la rivoluzione bolscevica non presentava nulla di positivo. Nel campo agricolo il regime abolì il mir (la proprietà collettiva distribuita periodicamente alle famiglie del villaggio) e divise la terra in piccoli lotti ai contadini. Il deputato siciliano, con queste considerazioni, cercava di dimostrare che il progetto bolscevico non possedeva tratti originali, assumendo, viceversa, la caricatura del capitalismo e del cesarismo che non rientrava all’interno della democrazia liberale [25].
Colajanni, elaborato nel corso della sua formazione lo stretto legame tra la democrazia e il socialismo, accettava ormai pienamente la via del socialismo riformista e dell’evoluzionismo, supportati l’uno e l’altro anche da settori della cultura marxista. Il suo riferimento era a Karl Kautsky, il quale riteneva la dittatura del proletariato come una fase intermedia tra il capitalismo e il socialismo e non come un governo dittatoriale fondato su un solo partito. Colajanni, accogliendo le critiche del socialista tedesco, condannò la dissoluzione dell’Assemblea costituente e l’abolizione del suffragio universale in Russia [26].
Kautsky e Colajanni, avendo la stessa visione della storia russa, approvavano la rivoluzione di febbraio, ma pensavano che quella bolscevica fosse un semplice colpo di Stato in deroga alle leggi dell’evoluzione della società. Colajanni riteneva, infatti, che il comunismo si potesse realizzare in un regime capitalista maturo, e non in un Paese arretrato come la Russia. Pertanto il bolscevismo gli appariva una terribile involuzione economica e una minaccia per la democrazia che avrebbero portato alla barbarie. Il capitalismo, osservava Colajanni, era responsabile di grandi colpe e molte manifestazioni di egoismo, ma sarebbe imperdonabile «negare i suoi benefici soprattutto nel campo della produzione, il cui straordinario aumento aveva contribuito al progresso umano e all’elevazione del proletariato» [27].
Nell’impegno per la difesa della democrazia, Colajanni, durante il primo dopoguerra, si distinse per la lotta contro i socialisti e contro i repubblicani filobolscevichi, riprendendo gli stessi temi utilizzati contro i nemici interni. Per quel che riguardava i socialisti sollecitò Filippo Turati, che interpretava la linea riformista, a non rassegnarsi al predominio dei massimalisti e alla loro linea filobolscevica [28]. Si rivolse poi al gruppo dirigente socialista il quale, con la sua influenza e nella direzione delle masse, avrebbe potuto svolgere una efficace propaganda «per conoscere tutta la verità sulle condizioni della Russia bolscevica» [29]. All’interno del Partito repubblicano Colajanni guardò con simpatia al fascismo. A partire dal 1920 il direttivo cominciò a demistificare la tendenza filorepubblicana di Mussolini e a forgiare un partito rivoluzionario vicino alle posizioni dei socialisti. Colajanni a questo punto si dissociò da tale linea politica temendo che essa potesse avvantaggiare il bolscevismo [30].
Colajanni, con questo impianto, si proponeva di difendere l’ideale della democrazia politica e sociale, mentre svolgeva una polemica estremamente violenta contro i bolscevichi italiani e non esitava a rammentare la propria stima nei confronti del socialismo riformista. Il passaggio dall’opposizione alla difesa dei governi italiani nell’ultimo decennio della sua vita era apparentemente contraddittorio, poiché il deputato siciliano ormai considerava l’ordine borghese e capitalista un caposaldo della civiltà in contrapposizione al dispotismo e alla dittatura bolscevica
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- Id., Il Partito socialista. La sua potenza, articolo manoscritto inedito redatto nel gennaio 1921 e destinato al «Giornale d’Italia». Si conserva presso la Biblioteca comunale di Enna (Scaff. 46, palc. 2, n. 91).
- Ibidem.
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